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I No Tav e la guerra ai «collaborazionisti»

sul Corriere della Sera del 27/7/2013

DAL NOSTRO INVIATO – SUSA (Torino).  Anche la signora dietro al banco della reception è una collaborazionista. Quell’insulto lo sente almeno un paio di volte alla settimana, quando vengono in gruppi a urlare davanti al suo albergo, lo legge ogni volta che apre la portiera della sua auto, perché è inciso sulla fiancata. «Passerà, sta passando. Non ho mai avuto tanta solidarietà pubblica come in questi giorni. La gente della Valle ormai è molto insofferente a questa deriva dei No Tav. Sono in tanti a non poterne più».

Patrizia Ferrarini è la proprietaria dell’hotel Napoleon, ormai diventato una fermata abituale degli attivisti No Tav più radicali. L’accusa di collaborazionismo è dovuta alla clientela, l’albergo più longevo di Susa osa dare ospitalità ai poliziotti dei reparti mobili. Solo negli ultimi sette giorni, due visite, la prima durante la fiaccolata di protesta contro gli arresti seguiti all’assalto al cantiere di Chiomonte del 19 luglio, l’altra in ordine sparso. «Quel che mi fa male è vedere gente che conosco dietro i più aggressivi, quelli che vengono da fuori. Ci sono, ma non vogliono farsi vedere. In fondo si vergognano». A che punto è l’eterna questione della Tav. La solita domanda da anni, ancora una volta. Gli scontri della scorsa settimana hanno lasciato scorie piuttosto visibili. La consueta aggressione al cantiere di Chiomonte si è rivelata «un massacro a livello mediatico, fisico e giudiziario», come ha scritto Luna Nuova, il bisettimanale della Val Susa non certo ostile alle ragioni No Tav. Il fallimento ha prodotto notevoli lacerazioni interne. Gli attivisti venuti da fuori hanno rimproverato ai locali una certa leggerezza nella programmazione dell’azione per la quale erano stati convocati, della quale sono stati loro, meno esperti del territorio, a fare le spese, come dimostra l’elenco delle persone arrestate. I capi valsusini e torinesi sono alle prese con il dilemma della porta aperta. Val di Susa ormai entra ed esce chi vuole. Nessuno controlla più nessuno. È la presa d’atto di questa situazione che ha portato le figure più rappresentative, i No Tav storici, a defilarsi. Quella tra vecchi e «giovani», virgolette d’obbligo perché il tempo passa per tutti, non sarà magari una frattura netta. Ma la divergenza su metodi, pratiche e obiettivi ormai esiste. Ammessa in privato, negata in pubblico. L’obbligo di salvaguardare l’apparenza del movimento unito, che si parte e si torna insieme, costringe gli attuali portavoce a benedire la presenza in valle e al campeggio estivo di anarchici stranieri e antagonisti italiani, esibiti come prova del consenso raggiunto dalla causa No Tav. Ma per loro la gestione di questa presenza sempre più ingombrante si sta rivelando complicata e fuorviante, perché fa apparire l’aggressione alle forze dell’ordine come l’unica ragione sociale e collante della lotta. Non si parla più di treno, neppure tra i No Tav, ma solo di cariche e lacrimogeni, e questo proprio nel momento in cui dalla Francia arrivano rapporti governativi che mettono in dubbio la necessità dell’opera. Nell’attuale fase di anarchia di movimento, la linea attuale è stata espressa da uno scritto apparso all’inizio di luglio su Umanità Nova, un settimanale anarchico. «Inutile nascondersi che il momento non è tra i più facili. La scommessa è ancora quella di creare le condizioni perché la valle di Susa torni ad essere ingovernabile. I sabotaggi sono il segno tangibile di una tensione forte a non arrendersi ai giochi della politica istituzionale, ma se restano patrimonio di pochi, cui i più delegano la lotta, possono rappresentare il canto del cigno del movimento. Occorre creare le condizioni perché i tanti che plaudono ma non si impegnano in prima persona si impegnino direttamente nelle azioni». A preoccupare la gente in valle non sono più gli assalti al cantiere e gli scontri. Quelli hanno già prodotto i loro danni, con il 2013 avviato a diventare l’anno peggiore del turismo. È il resto, la miriade di azioni e intimidazioni così piccole da non trovare spazio sui giornali, ma che viste da vicino assumono tutto un altro significato. Le molotov sulle escavatrici, i danneggiamenti alle ditte che locali che lavorano al Tav, le minacce agli amministratori favorevoli al treno. Avvelenano il pozzo della convivenza quotidiana, opponendo presunti «partigiani» ad altrettanto presunti «collaborazionisti». Almeno per ora non fanno grandi danni, ma sono il segno di uno spontaneismo che generano insicurezza e tensione. In ossequio alla nuova frontiera dell’ingovernabilità. E così non si capisce se con questa fase incerta siamo alle convulsioni finali oppure all’inizio di una nuova storia, più piccola, ma molto più insidiosa.