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La Val Susa, i cattivi maestri e le prove tecniche di terrorismo

Ettore Boffano su la Repubblica del 15/9/2013

Non so se, in Valle di Susa, si possa già parlare di “prove tecniche di terrorismo”. Ciò che appare evidente, invece, è come attorno alla questione dell’alta velocità e della linea Torino-Lione si sia raccolta una protesta politicizzata, ideologica e violenta (estranea alla gente comune della Valle) segnata da anni da un’escalation sempre più inquietante e giunta ormai al confine, lungo una sorta di “linea d’ombra sociale”, con ciò che non è più ribellione ma progetto eversivo. Un confine che, con buona pace degli “azzeccagarbugli del movimento” (pronti a citare vecchie sentenze della Cassazione per tentare di cancellare proprio le”finalità eversive” dei fatti più gravi della violenza valsusina), è già stato più volte oltrepassato e comincia adesso a lasciar intravedere la più fosca frontiera di una possibile pratica terroristica.

Non credo invece che sia giusto bollare la violenza della Valle di Susa con altre definizioni, citando la mafia e l’intimidazione mafiosa. Un vecchio vizio della polemica politica italiana, nella quale termini come “fascista”, “comunista” e “mafioso” sono stati trasformati in epiteti per insultare il “nemico”, usandoli in una maniera spesso avulsa dal loro significato originale e rivolgendoli a chi, addirittura, presentava caratteristiche o aveva atteggiamenti del tutto in contraddizione con tale significato.  Nel caso dell’ala violenta del movimento No Tav, in particolare, non c’è nulla dei comportamenti e dei metodi di lotta di quelle frange che possa essere ricondotto alla metodologia mafiosa (neppure gli attentati alle aziende coinvolte nei lavori del cantiere di Chiomonte), mentre appare altrettanto evidente che essi rappresentano invece l’ennesima reincarnazione della pratica “combattente” e conclamata dell’estremismo di sinistra (e del “massimalismo italiano”, in particolare). Scimmiottato, ridicolo oggi nelle sue balbettanti rivendicazioni e giustificazioni, lontano da qualsiasi radicamento sociale (come ha spiegato con molta chiarezza, in un’intervista a ‘La Repubblica’, Giovanni De Luna: “… Gli anni di piombo? No, gli elementi di discontinuità sono macroscopici. Non c’è più nulla di ciò che c’era allora. Organizzazioni politiche riconoscibili, la lotta di classe, la fabbrica…”), ma declinato secondo i canoni di una stagione feroce che ha dominato il nostro Paese (e in parte la Germania e la Francia), tra la seconda metà degli Anni 70 e gli Anni 80 del secolo scorso.
Tutti gli elementi di allora sono presenti oggi: le forze dell’ordine indicate come “nemico” sia dal punto di vista mediatico sia sotto quello fisico, la magistratura evocata come “mente strategica” della repressione e ricondotta a obiettivi personalizzati (si pensi all’infame campagna di demonizzazione, alimentata anche da suoi ex colleghi, contro il procuratore torinese Gian Carlo Caselli), l’arruolamento – tra gli “avversari” da colpire – tanto degli imprenditori come dei lavoratori che collaborano al cantiere dell’alta velocità, infine la criminalizzazione dei giornalisti e l’avvio, prima attraverso i social network e ora con l’attacco diretto, di una strategia di odio e di diffamazione nei loro confronti.

È qualcosa sulla quale dovrebbero riflettere soprattutto gli intellettuali della sinistra italiana che, da anni e con una particolare virulenza nelle ultime settimane, hanno accettato di fiancheggiare le imprese dei “paladini” valsusini della guerra al treno veloce. Applicando il Codice Penale, la procura torinese ha già individuato gli autori dell’aggressione alla giornalista di “Repubblica” bloccata e minacciata per impedirle di fare il proprio lavoro: quello di informare. Resta invece tutta da scrivere la condanna morale verso quei “cattivi maestri” (e le loro “istigazioni subliminali”o “rivendicazioni nascoste”) che, da tempo, hanno scelto di indirizzare i loro strali ideologici, oltre che contro il treno ad alta velocità, anche contro il giornalismo torinese. Con frasi inequivocabili che, in una sorta di “Apologia” della sovversione valsusina presente da oltre un anno negli scaffali delle librerie italiane, descrivono così il lavoro dei cronisti subalpini: “… Sempre più si assiste a una informazione embedded, arruolata dapprima nelle attività di propaganda e, poi, onnipresente partecipe delle operazioni di ordine pubblico…  Strumenti di questa operazione sono, in particolare, le pagine locali dei grandi quotidiani diffusi in Piemonte (“La Stampa” e “La Repubblica”) e del Tg3, con i relativi siti, sempre più simili a mattinali della Questura o a uffici stampa della Procura…”.