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Quei malintesi sulla democrazia del pubblico

Ilvo Diamanti su Europa del 27/9/2013

In Principi del governo rappresentativo Bernard Manin racconta l’avvento della «democrazia del pubblico». Una formula entrata nel linguaggio comune, per l’efficacia con cui descrive un’epoca, la nostra, in cui i partiti hanno ceduto spazio e ruolo alle persone, l’organizzazione sociale e territoriale ha lasciato posto alla comunicazione. Mentre le ideologie e le identità collettive sono state riassunte e rimpiazzate dalla fiducia nel leader. La partecipazione e la militanza hanno, dunque, perduto peso, mentre è cresciuto il rilievo attribuito ai media e al marketing politico. Oltre che ai sondaggi.

Manin parla, dunque, di «democrazia del pubblico» per sottolineare come la rappresentanza si traduca nella relazione diretta fra leader e “opinione pubblica”. Che avviene, prevalentemente, attraverso i media. A senso unico. Fra gli “attori” politici e il loro “pubblico”. In Italia, la fortuna del concetto è strettamente  collegata all’affermazione di Berlusconi e all’avvento del cosiddetto “berlusconismo”. Chi, meglio e più di Berlusconi, infatti, è in grado di cumulare e sintetizzare personalizzazione, comunicazione, uso e controllo della televisione e del marketing in politica? D’altronde, in Italia, il volume è stato tradotto e pubblicato, dal Mulino nel 2010, mentre l’edizione originale è del 1997, pubblicata sia in Francia (da Flammarion) che in Inghilterra (dalla Cambridge University Press). Quasi che l’autore avesse applicato il suo approccio a un fenomeno politico consolidato, in modo iperbolico, più che esemplare.

Tuttavia, lo studio di Manin non si occupa dell’Italia dei nostri tempi. È stato, infatti, sviluppato su un piano comparativo internazionale e su una prospettiva storica lunga. Che dall’Atene di Pericle si snoda fino ad oggi. Le prime – parziali – versioni del saggio, peraltro, risalgono a circa trent’anni fa. Quando Silvio Berlusconi era “solo” un imprenditore mediatico influente. Politicamente “sponsorizzato” da Craxi.

Ciò suggerisce che l’Italia di Berlusconi, non sia tanto un’anomalia, ma, piuttosto, un caso particolare, che riproduce, in modo estremo, e talora anticipa, alcune tendenze, peraltro consolidate, nelle democrazie occidentali. La “democrazia del pubblico”, peraltro, secondo Manin, non annuncia la crisi o, peggio, la fine del sistema democratico. Semmai, la “metamorfosi”, che segue alla lunga fase del “governo dei partiti” (di massa). La personalizzazione, in particolare, più che una degenerazione della democrazia rappresentativa, ne appare elemento costitutivo. E segnala quasi un ritorno alle origini, al “parlamentarismo” notabilare del XVIII e del XIX secolo.

Respingere l’idea della “democrazia del pubblico”, dunque, non permette di comprendere i problemi della democrazia italiana. Che non coincidono con la “democrazia del pubblico”. Ma dipendono, semmai, dalle resistenze del “governo (e delle oligarchie) dei partiti”. E richiamano, inoltre, una questione sostanziale della democrazia liberale. Mi riferisco al fondamento dello “spirito delle leggi”, definito dal barone di Montesquieu. L’equilibrio dei poteri: fra le istituzioni di governo, gli attori della rappresentanza e, oggi, l’Opinione pubblica – garanzia di controllo e dibattito sulle pubbliche decisioni.

In Italia, invece, oggi si assiste alla concentrazione dei principali poteri – governo, partiti, media – in una sola persona. Per questo dovremmo parlare di “democrazia del pubblico all’italiana”. Anch’essa attraversata (e sfidata) da una nuova “metamorfosi”, prodotta dall’avvento della Rete e dei social media. Che ha introdotto e imposto nuove tensioni, nel governo rappresentativo. In nome di esperienze di democrazia diretta e partecipativa. Ma questa è un’altra storia, di cui Manin terrà conto in una prossima edizione del suo importante e fortunato libro.

Qui l’estratto del testo di Manin