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in edicola Rassegna stampa democratica

Un partito non appalta le scelte al “popolo sovrano”

Giorgio Merlo su Europa del 23/11/2010

Il rapporto tra regole e politica, da sempre, è al centro del dibattito politico italiano. E, di conseguenza, domina anche la dialettica nei partiti e tra i partiti che fanno del nuovismo la loro cifra politica e di costume. Un nuovismo che però, a volte, rischia di creare conseguenze incalcolabili per gli stessi partiti che propugnano questi principi innovatori.
Ora, per uscire dalla metafora, il risultato delle recenti primarie di Milano non può passare sotto silenzio. Al di là delle indubbie responsabilità politiche del gruppo dirigente del Pd milanese, il nodo non è banalmente riconducibile ai singoli ma all’uso di uno strumento che si è dimostrato radicalmente inadeguato nella selezione stessa della classe dirigente.
Certo, le primarie sono parte costitutiva del Partito democratico e della sua identità. E le stesse primarie vengono indicate come lo strumento principe per ogni consultazione elettorale, dal livello comunale a quello europeo passando per gli organi dirigenti del partito.Uno strumento che, di fatto, deresponsabilizza lo stesso gruppo dirigente a qualsiasi livello perché indica nell’applicazione burocratica e protocollare della norma la soluzione a qualunque problema che possa insorgere. Ma quando la regola – come il caso milanese platealmente evidenzia – cozza contro la realtà e provoca danni politici non indifferenti come ci si comporta? Proseguendo in modo altrettanto protocollare e burocratico nella sua applicazione o cercando di correggerne gli errori? Quando la partecipazione alle primarie si incrina pericolosamente, quando si registra la sconfitta dei candidati del Pd e, soprattutto, quando si offre su un piatto d’argento la vittoria ad esponenti della sinistra antagonista si arriva ad una sola conclusione: e cioè, lo strumento è politicamente ingombrante e del tutto nocivo per far vincere le ragioni del partito che le propone. Certo, lo strumento in sé è un fatto tecnico e le responsabilità, se ci sono, sono politiche, squisitamente politiche e lì vanno ricercate le potenziali inadeguatezze. Ma è indubbio che il tema va posto.
Innanzitutto c’è un dato che non possiamo aggirare. Il Pd è il solo partito italiano che prevede al suo interno il ricorso alle primarie per selezionare tutta la sua classe dirigente. Un dato positivo o solo dettato dal nuovismo momentaneo e passeggero? La risposta è altalenante ma è altrettanto chiaro che quando la norma comincia a scricchiolare la dirigenza politica si deve porre il problema e cercare di risolverlo non attraverso la consultazione demagogica ma con le armi della politica e del convincimento che si addicono ad un vero gruppo dirigente.
E questo, forse, è il momento propizio per affrontare di petto la questione.
Ora, è indubbio che le primarie sono uno straordinario volano di partecipazione e di innovazione della politica italiana. Purchè non rispondano solo alla logica dello spontaneismo movimentista e al nuovismo fine a se stesso.
Un partito non vive appaltando le scelte politiche fondamentali interne sempre al “popolo sovrano”. Certo, è sicuramente un atto fortemente democratico fin quando non sconfina nella sostanziale indifferenza di ciò che può capitare o nella cinica indifferenza del risultato che può produrre. I processi politici devono anche essere guidati e assecondati attraverso un forte coinvolgimento della base ma non appaltando tutto alla base. Del resto, come ho detto poc’anzi, perché il Pd è l’unico partito italiano che individua nelle primarie lo strumento essenziale per selezionare la sua classe dirigente? Perché nessun altro partito – tanto di centro-destra quando di centro-sinistra – segue questo esempio? Se fossero così risolutive e miracolistiche per rinnovare la politica italiana è perlomeno curioso che nessun altro partito le faccia proprie, tranne per lucrarne i benefici e i vantaggi indiretti. È il caso di dire che si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite, secondo un vecchio adagio funzionale ad alcune industrie del passato.
E, strettamente collegato a questa osservazione, c’è la questione aperta del “profilo” politico e culturale del Partito democratico. Le primarie in un grande partito possono diventare un fatto popolare di grandi dimensioni. Le primarie in un partito che vede restringere progressivamente la sua base elettorale, possono trasformarsi in un fenomeno che vede accrescere una partecipazione militante e radicale ma incapace di rappresentare le istanze maggioritarie della società italiana e ridursi ad una competizione interna quasi violenta.
Insomma, si tratta di aprire una riflessione pacata, e non polemica o rancorosa, sullo strumento primarie.
Una valutazione, però, che dev’essere politica e non banalmente tecnica e regolamentare.
Un partito, del resto, non vive di sole regole, codici, statuti, regolamenti, gazebi e primarie a colazione.