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La scuola non tema la valutazione. E neanche il Pd
Paola Pozzi e Marco Campione su Europa del 12-04-2011
L’intervento di Antonio Funiciello su queste colonne coglie nel segno: la chiave per una seria riforma della scuola è la valutazione del sistema.
Non a caso la sua riflessione parte dalle scelte del presidente americano che ha scelto come bandiera “change”, il cambiamento. E la scuola italiana ha un profondo bisogno di cambiamento.Il professor Hardy, grande matematico, disse: «Sapevo, anche mentre eccellevo sul suo prato, che il campo da gioco era truccato. Era truccato per premiare i ricchi, i ben nutriti e i ben curati. Il talento non assisteva il figlio del minatore del Galles: lui avrebbe passato la vita in miniera, anche se avesse avuto la dimostrazione dell’ipotesi di Riemann stampata nella mente».
Quella era l’Inghilterra vittoriana, ma molte diseguaglianze le troviamo oggi in Italia: diseguaglianza tra gruppi sociali, sia in termini di successo che di accesso (i figli di laureati sono meno colpiti da fenomeni di abbandono e si concentrano nell’istruzione liceale); diseguaglianza territoriale (non solo tra nord e sud); diseguaglianza tra generi. Ecco perché è urgente intervenire.
E tra i cambiamenti necessari, la valutazione assume un ruolo centrale: ci serve per capire come e dove intervenire.
Come tutti i cambiamenti, anche la valutazione fa paura. Funiciello accusa il Pd di «lasciarsi dettare la linea dalle sigle sindacati» e invita a riflettere sul fatto che «i genitori sono un po’ più numerosi degli insegnanti». Si tornerà in conclusione sul tema del consenso, ma prima l’invito è quello a non mettere in contrapposizione il mondo della scuola e gli studenti e le famiglie che la frequentano: una qualsiasi riforma non si potrà mai fare senza, a prescindere da o contro gli insegnanti e i dirigenti.
Ed è altrettanto insensato pensare che una riforma vada bene solo se lascia le cose come stanno. È evidente che per il Pd la difficoltà è tutta qui: rifiutare le guerre di religione e dimostrare di essere una forza che vuole il cambiamento e ha le competenze per realizzarlo. Per riuscire in questa impresa sono necessarie due cose: aver chiaro dove si vuole andare e non aver paura di dire ad alcuni potenziali compagni di viaggio che stanno sbagliando. Sulla valutazione abbiamo discusso e approvato proposte: sono perfettibili, ma certamente non sono ambigue sulla necessità di valutare. Proprio perché siamo portatori di idee non abbiamo niente da temere dal confronto con un governo «solo chiacchiere e distintivo » e ci dovrebbe essere agevole prendere le distanze da chi dimostra di essere ancora attardato su posizioni di conservazione. Un solo esempio: alcuni sindacati e movimenti stanno facendo una campagna per boicottare le prove Invalsi; alcuni documenti parlano di «discriminazione dei docenti» e affermano che «unico e vero scopo dei test è dividere e gerarchizzare gli insegnanti, limitando de facto la loro libertà d’insegnamento e di pensiero». Da campagne così bisogna prendere le distanze perché è assurda la sovrapposizione tra valutazione e limitazione della libertà di insegnamento ed è insostenibile il rifiuto pregiudiziale di qualsiasi differenziazione, presentata come anticamera della barbarie. Sbagliato sarebbe affidarsi alle sole prove Invalsi per la valutazione, ma il lavoro dell’insegnante è comunque valutabile. È poi paradossale che la valutazione sia interpretata con tale superficialità da un mondo che fa un uso quotidiano di essa per correggere gli errori, per migliorare metodo e qualità dello studio, stimolare gli studenti.
Non si tratta di dare le pagelle ai docenti buoni e a quelli cattivi. Gelmini e Brunetta la vendono così, ma accettare quel terreno dello scontro è far loro un enorme regalo.
Quello che serve è dotarci degli strumenti per un periodico monitoraggio dei risultati, per garantire ai cittadini che le scuole adempiano alla funzione cui sono preposte, per identificare eventuali criticità sulle quali intervenire, per selezionare buone pratiche da modellizzare.
A questo governo appare troppo oneroso valutare il sistema per porre rimedio alle sue inefficienze ed ineguaglianze.
Il Pd deve rifiutare la strada del consenso facile: quella è la strada della Gelmini. È un lavoro più difficile, che può richiedere anche “divorzi” dolorosi, ma è l’unico che consentirà di realizzare le riforme che teorizziamo. Candidiamoci quindi a far crescere quella parte di docenti cosciente della necessità di regolarizzare il campo di gioco, modernizzare il sistema, renderlo più equo e giusto; quella parte che si concepisce come professionista, ricercatore, progettista di percorsi formativi. Diventiamo il partito di quei docenti che vogliono gli sia riconosciuto il diritto di poter crescere nelle mansioni e nella retribuzione, vogliono le nuove tecnologie nelle aule, ritengono loro preciso diritto essere valutati e valorizzati, premiando impegno e risultati conseguiti.
Essere gli interlocutori di queste persone è un dovere per un partito riformista; un dovere al quale adempiere anche a costo di inimicarci chi ha tutto da perdere dal cambiamento. Se faremo questa scelta realizzeremo una scuola a misura di chi la frequenta e di un paese che ha assoluto bisogno di qualificare le risorse umane di cui dispone. Parafrasando Obama: «Yes, we must».