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Incidenti in Via Roma a Torino, Furia: “Anche se ci sentiamo assolti, siamo per sempre coinvolti”

da Repubblica – Torino del 30 ottobre 2020

Si sono dette e scritte cose affrettate sui protagonisti degli scontri di Piazza Castello e via Roma dei giorni scorsi. Ci sono due interpretazioni egualmente unilaterali ed insufficienti di tali fenomeni di violenza. Una “cattivista”, secondo la quale il vandalismo è semplicemente teppismo, un problema di ordine pubblico che deve essere trattato con la repressione; e una “buonista”, che pretende di incasellare i nuovi rivoltosi in categorie manzoniane, il popolo che assalta i forni durante la peste per la fame, o quelle di un marxismo da salotto, che, con gli occhi del centro città, parla di un generico “disagio che va ascoltato”. C’è del vero in entrambe le posizioni: i teppisti, lo dicono gli identikit dei primi fermati, provengono dalle periferie e sono l’espressione sociale di un malessere; d’altra parte è anche vero che il teppismo è teppismo, non può essere giustificato, va punito e colpito. Occorre tuttavia fermarci per capire il dramma culturale, valoriale che alimenta le forme di protesta dei giovani dei quartieri disagiati, spesso seconde generazioni di immigrati, che guardano con profondo disincanto alla realtà in cui sono nati e cresciuti. 

 

Nel nostro mondo l’identità è formata da media altamente differenziati: bolle come profili social sempre più personalizzati, canali youtube o tik tok di specifici influencer, prodotti culturali fortemente identitari. Se fino a poco fa gli scienziati sociali denunciavano i rischi omologanti della televisione, oggi si fa più fatica a comprendere i risultati della segmentazione della nuova offerta culturale. Ecco perché tanti cinquantenni non hanno mai sentito parlare della musica trap o indie: e probabilmente non hanno mai considerato che, per fare non dico politica, ma anche l‘insegnante o il genitore, questo “non sapere” rappresenta un problema. I contenuti di queste bolle, come di alcuni testi delle canzoni trap, comunicano spesso cinismo nei confronti dei valori tradizionali: è importante vincere, farcela, consumare beni molto costosi per ottenere finalmente il rispetto di coloro che contano. Denaro, potere e prestigio: nient’altro ha valore. Se è così, allora vale tutto: anche andare a rompere la vetrina di Gucci, per sentirsi, per un momento, più potenti di come si è, per avere una rivincita. Si potrebbe rimproverare a questo cinismo di mancare di un orizzonte di lotta comune in vista dell’emancipazione sociale. Dobbiamo però chiederci se questo cinismo non sia il riflesso di un cinismo più fondamentale, insidiatosi nella politica, nella finanza, negli affari. Se è così, occorre avere il coraggio di denunciare il “teppismo implicito” di certo cosiddetto mondo “per bene”. Un teppismo di sistema, per essere provocatorio, che non si misura in pietre lanciate contro una vetrina, ma in tirocini mal pagati e non trasformati in lavoro; nell’allestimento di concorsi truccati, nel familismo amorale che persiste nella selezione delle carriere, nella riduzione dei servizi di prossimità che derivano da quindici anni di tagli lineari agli enti pubblici. Una violenza di sistema che consolida le disuguaglianze e alimenta, nelle periferie di Torino proprio come nelle Banlieues francesi, una reazione antisistema egualmente teppista, impotente, disperata.

 

Anche se noi ci sentiamo assolti, siamo per sempre coinvolti, ci direbbe forse De André. Ma questo non deve condurci né a giustificare violenze ingiustificabili né tantomeno a rassegnarci all’immobilismo. È chiaro che i temi della povertà sociale e culturale, della lotta contro le ingiustizie e della valorizzazione dei luoghi, in quanto presidi di una socialità perlomeno complementare alle bolle digitali, devono essere messi in cima alle preoccupazioni di una politica rinnovata, motivata dall’urgenza di comprendere il nostro tempo ed agire per cambiarne la direzione.

 

Paolo Furia, segretario regionale PD Piemonte