Il “virus” della parola. La scelta delle parole che si usano in una società è importante

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su Immagina.eu di Luigi Bianco – Studente dell’Università di Roma “Tor Vergata” e blogger
La scelta delle parole che si usano in una società è importante. Esse ci dicono molto sugli ideali, le idee, la visione politica e del mondo che si possiede. Lo sa bene chi si occupa di sociolinguistica, la branca della linguistica che studia la connessione che intercorre tra il linguaggio e la società: al mutare delle condizioni sociali (in senso diacronico o diastratico), il linguaggio si adatta.
L’Italia contemporanea, da quasi un decennio a questa parte, ha vissuto un periodo piuttosto uniforme da questo punto di vista. Solo di questi tempi si può scorgere una netta frattura: un prima e un dopo virus. Quali erano le parole del prima? Alcune circolavano da tempo raccogliendo forza e potenza come una valanga. Sembrano lontanissime, eppure erano la regola solo l’altro-ieri. Anti-establishment, per citarne una. Il “popolo” era contro l’“élite”, “italiani” contro “anti-italiani” (o burocrati di Bruxelles, o tedeschi, o francesi). Il linguaggio usato non era certo guerresco – troppo, troppo! –, piuttosto rappresentava una guerriglia portata avanti in modo scomposto e disordinato, ma con quella “vitalità barbarica”, declinata da Augias, che la rendeva efficace. I nemici erano identificati non proprio precisamente: gli immigrati (i giacobini lor seguaci sapevano essere più precisi: gli africani), l’Europa, la sinistra. Infine, il crollo, ma un crollo a metà, ancora disarticolato e scoordinato, condensato in una parola: Papeete. Soprattutto una tendenza diffusa: prendere una parola e tirarla, stracciarla, usarla fino allo sfinimento anche quando non entra più, per poi gettarla via. Consumismo lessicale.