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Si fa presto a dire che siamo in un mondo liquido

(di Paolo Furia)
Si fa presto a dire che siamo in un mondo liquido. Si tratta di un’analisi in parte superata. Legata agli anni Novanta, tutti concentrati sul disfacimento delle vecchie classi, poco sensibile alla generazione delle nuove linee di conflitto.
Oggi invece va detto che il mondo e il tempo in cui viviamo è tremendamente rigido.
Sono rigidi i processi di esclusione ed inclusione. Sono rigidi i meccanismi che regolano la competizione sfrenata per accedere alle professioni.
Sono rigide le tasse, le tariffe, gli affitti e i mutui, mentre l’unica cosa non rigida è il salario, che è sempre più precario.
Sono rigide le scadenze esattoriali, mentre non è rigido il guadagno.
Sono rigide le bolle culturali in cui viviamo: i genitori non sanno più cosa guardano i figli perché non si guarda più la televisione insieme che ci omologava tutti negli anni Novanta, ma si sta su Twitch, Clubhouse, Instagram, TikTok, Youtube (e non Facebook, dove stanno spesso proprio gli adulti, esposti a ogni genere di fakenews).
L’inclusione o esclusione dallo smart working, dalla connessione per la DAD è una dinamica rigida.
Sono rigidi i processi di accompagnamento alla pensione per i lavoratori anziani che non hanno possibilità di rendersi nuovamente appetibili sul mercato nonostante il restyling delle politiche attive del lavoro (peraltro rigide).
Sono rigidi i meccanismi di valutazione della ricerca.
Sono rigidissimi i meccanismi per determinare le opere che verranno finanziate, esposte ad ogni genere di pressione lobbistica, senza un modello di coinvolgimento serio e istituzionale dei territori.
E’ rigido il contesto semi-monopolistico del capitalismo italiano, accompagnato da una proverbiale rigidità della pubblica amministrazione.
E sono tragicamente rigidi il gap di genere e quello tra territori di periferia e i centri dei centri urbani.
Non c’è nulla di liquido e scoppiettante in un distretto industriale in crisi che non sa come re-impiegare i lavoratori e le aree dismesse. Non c’è nulla di liquido e scoppiettante nel fatto che i nuovi players occupazionali in Italia siano le coop di pulizie, il facchinaggio e il call center – con relativi contratti e magri redditi.
Non c’è nulla di liquido nelle banlieues dove esiste un tema di sicurezza per davvero e dove nelle case popolari i poveri chiedono che siano espulsi i poverissimi. Esistono certo energie che non si identificano più con i partiti in questi luoghi. Ma sono energie che vivono nel conflitto, che animano resistenze, che organizzano interessi contro altri, che spostano l’attenzione sulle condizioni materiali di vita.
Il buon riformismo, le buone riforme sono ciò che serve per ridurre questi gap che feriscono e rendono anche non competitivo il paese. Ma buone riforme significa non solo idee giuste e anti-corporative. Significa anche risorse sufficienti per implementarle e strumenti di valutazione d’impatto. Se si accorpano gli enti per dare loro una governance nuova ma poi non sostieni formazione, strumenti e competenze per generare la nuova governance, l’accorpamento sarà una perdita. Se si chiudono gli ospedali e non si sostituiscono con le case della salute, si è impoverito un territorio. Se si impone la transizione ecologica, ma non si elettrificano le linee dei treni, non si connettono tutte le scuole, e si realizzano dighe enormi e invasive senza dialogare con il territorio, non si fa davvero la transizione, piuttosto si è ceduto alle lobbies. Il riformismo è una parola troppo seria per essere spesa come etichetta vuota in una stagione come questa.
Aprire una fase nuova nel paese e nel Partito Democratico vuol dire questo. Non solo buon governo, competenza amministrativa – che è già tanto – ma comprensione del presente, attualità dell’analisi, identificazione delle lotte e dei processi in cui si collocano.