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Qualche domanda sul cuneo fiscale
Edoardo Patriarca su L’Unità del 28/2/2014
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La colonna sonora del dibattito sul rilancio dell’economia sembra essere diventata la riduzione del cuneo fiscale. E su questo ruota anche il programma economico del governo Renzi Primo. Ma poiché si tratta di cifre molto consistenti e che rischiano di esaurire le risorse disponibili per la crescita è opportuno porsi alcuni interrogativi.
La questione non è tanto se questo serva a dare 50 euro al mese in busta paga ai lavoratori occupati o serva invece a diminuire il costo del lavoro per le imprese. E non è nemmeno solo il fatto se il costo equivalga a 10 miliardi, come sempre il responsabile economico del Pd dichiara o a 25 miliardi, come risulterebbe dall`applicazione del taglio del 10% al cuneo. La domanda da porsi – se l`obiettivo dichiarato è di avere il lavoro, in particolare quello per i giovani, e la crescita al centro del programma – è se sia effettivamente quella del cuneo fiscale la destinazione migliore delle risorse e se ciò sia compatibile con le strade individuate (a grandi linee) per reperirle.
Già il governo Prodi decise di destinare il “tesoretto” alla riduzione del cuneo: la spesa fu alta, l`effetto poco percepibile. Occorrerebbe poi essere sicuri che il maggior problema italiano sia effettivamente, come dice la “trojka”, il costo del lavoro. A guardare la dinamica nonostante tutto positiva dell`export italiano, si direbbe che il problema urgente non sia tanto la competitività di costo quanto invece l`elevata disoccupazione, la carenza della domanda interna e il congelamento del credito alle imprese. Il concreto rischio è quello di un provvedimento generalizzato (e, per chi ne beneficerebbe, forse marginale) e quindi inefficace.
Con circa dieci miliardi annui si possono fare molteplici scelte alternative: finanziare interamente 200.000 posti di lavoro l`anno (salario e costi dell`investimento associato necessari), magari in settori strategici per il Paese come la tutela del territorio, il turismo, l`economia verde; oppure fiscalizzare totalmente i contributi per 500.000 nuovi assunti per i primi cinque anni ed estendere a tutti l`indennità di disoccupazione; o in alternativa si può fare un strumento vero di sostegno al reddito (realmente di cittadinanza), per tutte le famiglie al disotto della soglia della povertà e in contemporanea rimborsare tutti gli interessi sui prestiti per gli investimenti delle piccole e medie imprese.
Con 25 miliardi si può addirittura fare tutto questo insieme. Si può cioè fare una politica di domanda sostenendo i più deboli (che consumando tutto il reddito aggiuntivo massimizzano gli effetti moltiplicativi) insieme ad una politica di offerta che aiuti le imprese che, sulla base di tali migliori prospettive di domanda, decidano di investire.
Quanto al consenso su una tale operazione, di sicuro grandi imprese e occupati non si lamenterebbero della prima ipotesi. Ma siamo sicuri che, per esempio, se chiamati ad esprimersi su un ipotetico referendum tra 50 euro in busta paga e 200.000 giovani nuovi assunti in lavori per il bel paese, gli italiani sceglierebbero la prima ipotesi? Quanto al reperimento delle risorse sarebbe opportuno porsi una domanda. Questa: dovendo contrattare con i nostri partner europei, in particolare i tedeschi, un allentamento dei i nostri vincoli di bilancio, non per fare investimenti e infrastrutture ma per rendere i nostri lavoratori meno costosi dei loro, la strada della trattativa sarebbe davvero più semplice?