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Come salvaguardare gli esodati
Cesare Damiano su L’Unità del 20/6/2014
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Adesso la sfida è sui contenuti di una politica che guardi, accanto al rigore, allo sviluppo ed all’equità sociale, in Italia ed in Europa. Noi ci proponiamo di svolgere una azione concreta e puntuale per favorire la soluzione dei temi più sensibili che riguardano il lavoro ed il welfare.
Il primo punto dal quale vogliamo partire è quello delle pensioni. Da Matteo Renzi ci divide il giudizio sulla «riforma» dell’ex ministro Fornero, ma ci unisce la comune volontà di risolvere il problema dei cosiddetti esodati, come il premier ha affermato in varie occasioni.
A nostro avviso quella «riforma» si conferma come una scelta sbagliata e socialmente iniqua e, con il passare del tempo, si indebolisce ulteriormente l’argomento dello stato di necessità di fronte alla straordinaria crisi che il Paese stava attraversando in quel momento.
Si potevano trovare soluzioni diverse, meno traumatiche e soprattutto più graduali, che avrebbero consentito lo stesso risparmio di risorse e ci avrebbero evitato una logorante rincorsa alla ricerca di una soluzione strutturale, finora mancante, sul tema degli «esodati».
Le proposte risolutive ci sono e noi le condividiamo, ma risultano troppo costose, secondo i calcoli dell’Inps e del ministero dell’Economia: la prima consiste nella introduzione di un criterio di flessibilità nel sistema pensionistico per consentire l’uscita dal lavoro a partire dai 62 anni; la seconda, nel ritorno alle «quote», naturalmente aggiornate all’innalzamento dell’età pensionabile (il governo Prodi era arrivato a quota 97, vale a dire 35 anni di contributi e 62 anni di età; si potrebbe ipotizzare, nell’attuale situazione, di alzare l’asticella a quota 100). Se le soluzioni strutturali adesso non si possono percorrere, il tema si riproporrà nella legge di Stabilità di fine anno, che è lo strumento più idoneo per operazioni di più largo respiro. Nell’immediato, se non vogliamo disattendere le richieste che arrivano dai lavoratori che aspettano di poter andare in pensione, dobbiamo continuare sulla strada delle «salvaguardie» che sono state, in successione, ben cinque dal 2012 ad oggi. In questo modo si sono tutelati oltre 162.000 lavoratori con uno stanziamento di risorse superiore a 11 miliardi di euro.
Nonostante questo sforzo del Parlamento, molta strada rimane ancora da fare per mettere in sicurezza altri lavoratori rimasti senza alcun reddito perché non hanno più il lavoro, non godono di ammortizzatori sociali e debbono aspettare anche cinque o sei anni per avere una pensione. Questa situazione sta alimentando disperazione e tensione sociale e sta allargando l’area della nuova povertà. Andare in pensione a 67 anni é anche una delle cause dell’aumento della disoccupazione giovanile.
Bisogna che il governo intervenga, anche perché alla fine di questo mese andrà in aula a Montecitorio la proposta di legge approvata unitariamente dalla Commissione lavoro della Camera che intende, appunto, risolvere il problema degli «esodati». Se non si individuano in questi giorni le soluzioni possibili, con le relative coperture finanziarie, corriamo il rischio di fare un buco nell’acqua. Ci vuole un atto di volontà politica da parte del governo e del presidente del Consiglio, perché non è più sufficiente barricarsi dietro il comodo paravento delle risorse. Non siamo così ingenui da non sapere che la coperta è sempre corta, soprattutto di questi tempi, ma bisogna porre fine al balletto di cifre sul numero dei lavoratori ancora da tutelare e sulle risorse necessarie per raggiungere questo obiettivo. In molti casi ci troviamo di fronte a calcoli incomprensibili e fluttuanti che, se si fermano soltanto alla fredda ed opinabile analisi ragionieristica e non vengono accompagnati da un esplicito impegno del governo, non consentiranno mai di risolvere il problema.
Per favorire un altro passo avanti vorremmo dare alcuni suggerimenti. Partiamo intanto dalle risorse accantonate dalle «salvaguardie», ben 11 miliardi, e verifichiamo se parte di queste non verrà spesa a causa di numeri sovrastimati. Ad esempio, la seconda «salvaguardia» di 55.000 lavoratori fin qui ha certificato che andranno in pensione meno di 20.000 persone: una bella differenza che, se rimane per sempre, porterebbe ad un risparmio di oltre due miliardi di euro da reimpiegare per tutelare altri lavoratori. Ad una condizione: che non si neghi il diritto alla pensione neanche ad una persona attualmente «salvaguardata». Qui entrano nuovamente in ballo i dati ed il ruolo dell’Inps diventa fondamentale. Gli accordi di mobilità oggetto di tutela sono quelli siglati presso i ministeri ante 2012: ci sono tutte le condizioni perché l’Inps, dopo quasi tre anni, faccia un consuntivo numerico definitivo. Se da questa verifica risultasse che si risparmiano risorse e se a queste ne aggiungessimo poche altre, si potrebbero fare molti altri interventi positivi.
Facciamo alcuni esempi: la maturazione della decorrenza del trattamento pensionistico, per ottenere la salvaguardia, è fissata al 6 gennaio 2015. Se ci fosse lo spostamento di questa data almeno di un anno, al 6 gennaio del 2016, si amplierebbe la platea dei beneficiari e si darebbe tranquillità ai lavoratori interessati.
Ci sono i problemi irrisolti dei lavoratori licenziati che avevano un contratto a termine e quelli dei macchinisti delle ferrovie; ci sono le penalizzazioni per chi va in pensione di anzianità e l’opzione donna. L’elenco delle palesi ingiustizie potrebbe continuare, ma abbiamo voluto solo fare degli esempi perché non spetta a noi indicare le priorità. Il problema ormai è posto nuovamente e con tutta evidenza agli occhi del Paese: ci aspettiamo una presa di posizione del presidente del Consiglio e del governo, un’assunzione di responsabilità politica e di sensibilità, che il ministro Poletti sta dimostrando, che faccia compiere un passo in avanti significativo a questa drammatica questione sociale.